Ma anche - su un livello minore - Fadeev (prima di diventare un funzionario della
letteratura sovietica ufficiale), il suo primo libro, La disfatta, l'aveva scritto con quella
sincerità e quel vigore (non ricordo se l'avessi già letto quando scrissi il mio libro, e
non vado a verificare, non è quello che importa, da situazioni simili nascono libri che
si somigliano, come struttura e come spirito); Fadeev che seppe finire bene come
aveva cominciato, perché fu il solo scrittore staliniano, nel '56, a dimostrare d'aver
capito fino in fondo la tragedia di cui era stato corresponsabile (la tragedia in cui
Babel e tanti altri scrittori veri della Rivoluzione avevano perso la vita), e a non
tentare ipocrite recriminazioni, ma a trame la conseguenza più severa: un colpo di
pistola in fronte.
Questa letteratura c'è dietro al Sentiero dei nidi di ragno. Ma in gioventù ogni libro
nuovo che si legge è come un nuovo occhio che si apre e modifica la vista degli altri
occhi o libri-occhi che si avevano prima, e nella nuova idea di letteratura che
smaniavo di fare rivivevano tutti gli universi let-terari che m'avevano incantato dal
tempo dell'infanzia in poi... Cosicché, mettendomi a scrivere qualcosa come Per chi
suona la campana di Hemingway volevo insieme scrivere qualcosa come L'isola del
tesoro di Stevenson.
Chi lo capì subito fu Cesare Pavese, che indovinò dal Sentiero tutte le mie
predilezioni letterarie. Nominò anche Nievo, a cui avevo voluto dedicare un segreto
omaggio ricalcando l'incontro di Pin con Cugino sull'incontro di Carlino con lo
Spaccafumo nelle Confessioni d'un Italiano.
Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad
allora non me n'ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di
confermare la definizione. La mia storia cominciava a esser segnata, e ora mi pare
tutta contenuta in quell'inizio.
Forse, in fondo, il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello
e basta, il grande strappo lo dai solo in quel momento, l'occasione di esprimerti si
presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più.
Forse la poesia è possibile solo in un momento della vita che per i più coincide con
l'estrema giovinezza. Passato quel momento, che tu ti sia espresso o no (e non lo
saprai se non dopo cento, centocinquant'anni; i contemporanei non possono essere
buoni giudici), di lì in poi i giochi son fatti, non tornerai che a fare il verso agli altri o
a te stesso, non riuscirai più a dire una parola vera, insostituibile...
Interrompo. Ogni discorso basato su una pura ragione letteraria, se è veritiero,
finisce in questo scacco, in questo fallimento che è sempre lo scrivere. Per fortuna
scrivere non è solo un fatto letterario, ma anche altro. Ancora una volta, sento il
bisogno di correggere la piega presa dalla prefazione.