Parigi, 15 settembre 1878.
Se d'ogni cosa che si è fatta, o si sta per fare fosse costume di cercar le ragioni, si troverebbe alla stretta dei conti che queste ragioni si restringono a poche, e non tutte sufficienti, come le voleva il Rosmini. Io, per esempio, son venuto a Parigi senza un vero perchè, senza un bricciolo d'interesse, o la scusa di una grande curiosità, solamente per fare come tutto il mondo, in questi tempi d'esposizione universale. Ed eccomi qui, con mezzo mondo alle costole. L'altra metà c'è' già stata, povera lei, con un caldo assaettato, mentre io ci son giunto e ci sto con un fresco che innamora. Appartengo alla gran metà dei soddisfatti, non c'è che dire.
Il mio viaggio può essere il viaggio di tutti, perciò le descrizioni tornerebbero superflue; ciò nondimeno, permettetemi di buttarvi giù quattro righe di storia. Ho passato un giorno a Torino, col rammarico di non poterci rimanere più a lungo. La vecchia capitale del regno si è grandemente abbellita; è florida, operosa e popolata più che mai. Esempio ed insegnamento notevole di una città che pareva condannata alla decadenza, e che ha trovato in sè stessa, nel suo coraggio, nella sua volontà, le forze riparatrici, non sempre facili ad attingersi dalle ricette degli Esculapii ufficiali.
Della galleria del Cenisio ho poco o nulla da dirvi. L'ho dormita tutta quanta, e mi è parsa poca. Mi sono risvegliato in Francia, al suono di un «vos billets, messieurs» profferito allo sportello, da un conduttore gallonato d'oro. Ho visto il gendarme, in luogo del mio prediletto carabiniere; mi han fatto scendere dalla carrozza e traversare il binario; mi han chiuso in una corsia, nel cui punto più stretto un gendarme aggradiva i nostri biglietti di visita e ne faceva raccolta, a mano a mano che gli sfilavamo davanti, o, per dire più esattamente, sul petto; mi hanno trattenuto un'ora nella stia, con una moltitudine di altri infelici, senza darmi neanche licenza di uscire per un minuto all'aperto; e tutto ciò alla gloria de l'administration, de la régularité, des exigences du service. In nome e alla gloria di queste cose, qui si sopporta anche di peggio. In Italia si eserciterebbe la pazienza con qualche dozzina di giaculatorie, non registrate nella Via del Paradiso, nè in altro libro di preghiere alla mano.
Rammento, per debito di giustizia, che a Modane, come in ogni altra stazione ferroviaria, od anche ufficio pubblico di Francia e Navarra, la rigidità della consegna, l'austerità del regolamento, sono temperate dalla gentilezza dei modi. Toccate la molla del «s'il vous plaît, monsieur» e quella del «veuillez avoir la bonté» e fate tutto quel che volete del conduttore, del guardiano, del gendarme, del sergente, del brigadiere, e perfino (almeno, c'è chi lo assicura) perfino del maresciallo.
In grazia dei «monsieur» serviti a tutto pasto e con ogni razza di gallonati, ho potuto uscir primo dalla gabbia, trovare il meno peggio dei posti nel treno francese, e schiacciarmi un altro sonnellino attraverso la Savoia. Nella stazione di Ambérieu, dove giungemmo a giorno chiaro, ho bevuto un latte, che meriterebbe il viaggio da solo. Il paese tutto intorno è bellissimo, colle sue balze che torreggiano impervie come rocche ariostesche, i suoi villaggi mezzo nascosti tra i pioppi, e il Rodano pur mo' nato che gorgoglia (quasi sarei per dire che balbetta) sul greto bianchiccio della vallata.
Che dirvi della Borgogna, attraversata nel giorno, con uno splendido sole? È la campagna meglio pettinata del mondo. I prati, i vigneti, i campi di grano turco, i casolari, i castelli signorili, ogni cosa è lisciata, cincischiata, fatta a pennello; ma badate, a pennello di scuola antica, e non già con certe spazzole da denti che so io, e che voi non ignorate di certo.
Questi prodigi d'agricoltura non vi occorrono mica nel più fertile dei terreni possibili. La campagna, dove è nuda, si mostra sassosa e gessosa, che è una disperazione a vederla. Ma ogni poggio, ogni falda, ogni piano, ha la sua coltivazione più acconcia; l'azoto vi si ficca in abbondanza e sotto tutte le forme più dottamente putride; i corsi d'acqua, numerosi e ben distribuiti, vi dànno de' pascoli così verdi, così ricchi, così appetitosi, da farvi qualche volta desiderare d'esser nato bue veramente, per contribuire, nella calma di una onesta ruminazione, all'incremento, alla prosperità di questo suolo benedetto. Quante volte e per quanti guastamestieri di cui è pieno il mondo, non sarebbe meglio che la natural selection avesse portato un tal giro nella scala degli esseri?
Il pensiero dei cinque miliardi e la dimostrazione sott'occhi del modo in cui poterono esser pagati ai Prussiani senza danno del paese, si alternano nella mia testa con le belle vedute di Macon e di Digione, e con lo spettacolo dei contadini che maneggiano la vanga qua e là, ritti sulla persona alla maniera toscana, quasi eleganti in vista, con la loro camicia bianca, la fascia di lana intorno alla vita e il cappello di paglia sulla testa. La via è lunga; ma, come vedete, non è punto noiosa.
Parigi si annunzia come Roma, con un vasto deserto. Ma questo di Parigi non è desolato come l'agro romano. Scarseggiano i paesi; si vedono a tratti poche case disseminate nel verde: ma la strada ferrata corre in mezzo a vigne, orti, semenzai e frutteti. Ho notato per un cinquanta chilometri di questa coltivazione intensiva.
Partito da Torino alle otto e cinquanta di sera giunsi a passar la Senna, sopra Parigi, dopo le cinque pomeridiane del giorno seguente. Alle sei, o giù di lì, per un ritardo reso necessario dalla affluenza dei treni, smontavo alla stazione di Bercy, o di Lione, se vi piace meglio. Novità inaudita; non un omnibus d'albergo ad aspettare i forastieri, poche carrozzelle, e tutte colla scritta «louée» su d'una banderuola piantata a cassetta, sulla sinistra del cocchiere. Ma non invano si è nati nella patria dei grandi scopritori. Scendo una scala, che mi mette sul boulevard de Mazas; m'imbatto in un piccolo Gavroche, che vuol portarmi la sacca da viaggio per venti centesimi; resisto e gli prometto una lira, se gli dà l'animo di trovarmi un fiacre. Il biricchino stacca un passo di corsa da disgradarne un bersagliere, e dieci minuti dopo, mentre vicino a me, su di un rialto isolato che fa cerchio intorno ad un lampione, quattordici o quindici viaggiatori appiedati rappresentano la scena dei superstiti della Medusa, io ci ho il mio fiacre, col Gavroche trionfante a cassetta. Non invito nessuno a tenermi compagnia; non torno indietro a cercare il bagaglio; infilo Parigi alla corsa.
Parigi è una città…. Ma, adagio; debbo proprio descriverla? Smontiamo prima all'albergo, che è abbastanza lontano dalla stazione; intavoliamo coll'albergatore i negoziati preliminari d'ogni trattato; diamo ad un cameriere il biglietto e la chiave del baule, perchè possa andare a ritirare il bagaglio dimenticato; scendiamo, cerchiamo il primo passage, o galleria, che ci metta in comunicazione colla grande arteria parigina; ed eccoci finalmente sul boulevard, anzi proprio su quello famoso des Italiens, che abbiamo intraveduto un po' tutti, all'età di quindici anni, nelle pagine d'un romanzo francese, tradotto da un Enrico Tettoni, o da un Gaetano Barbieri.
Parigi, per la prima volta, vuol esser veduta sui boulevards e di sera. Immaginate una via, non affatto rettilinea, larga una quarantina di metri, con due marciapiedi, ognuno dei quali occupa un quarto di questa misura, avendo sui margini dei grandi platani malati d'insonnia, frammezzati da chioschi di ferro, con pareti di carta, e un lume dentro, che ve li fa trasparenti, permettendovi di leggere un subisso di annunzi. Uno di questi chioschi non annunzia che spettacoli teatrali, ed è tutto chiuso, come una colonna traiana. Un altro serve di bottega ad un venditor di giornali; un altro ancora, circondato d'un chiuso di ferro, alto forse due metri, nasconde nei fianchi quattro o cinque settori, dove un uomo può stare benissimo in piedi, dando le spalle al prossimo. Ne m'en demandez pas davantage. Accanto ad alcuni di questi chioschi, è una chiave d'ottone con una secchia. I cocchieri aprono la chiave e riempiono la secchia, per abbeverare i cavalli, quando fanno sosta sui margini della strada. I casamenti sterminati, che corrono lungo la via, bucherellati di finestre, gremiti d'insegne, scintillanti di fiammelle di gasse, non formano a pian terreno che un solo caffè, una sola trattoria. Metà del marciapiede è invasa da sedie e deschetti di zinco. Le persone sedute, che mangiano e bevono, sono per lo meno in numero uguale a quelle che guardano e passano. Il gasse, come vi ho detto, è gittato a profusione; della luce elettrica in alcuni punti si fa spreco; per esempio nel crocicchio e nella piazza attigua dell'Opera, dove vi par d'essere nel giardino di Margherita, quando sta per finire il terz'atto del Faust. Qui, per altro, le Margherite passeggiano a migliaia tra la folla, riconoscibili dall'andar sole, perchè, come dice il libretto, «non hanno d'uopo ancor—del braccio d'un signor.»
M'avvedo d'aver rimpicciolito, col paragone d'un giardino, l'aspetto di Parigi notturna. Era un sacrificio fatto alla luce elettrica e al suo carattere teatrale. Parigi non può essere paragonata degnamente che a Babilonia, alla Babilonia del convito di Baldassarre, che abbiamo veduta nelle incisioni del Martin, o di Gustavo Doré. Quella gran luce fa biancheggiare nel fondo le isole gigantesche dei fabbricati. Gli alberi rompono un tratto quella gran mano di bianco; ma sotto gli alberi, la luce dei chioschi, dei caffè, delle botteghe, sforacchia per mille versi la frappa. Poveri alberi, quando dormono? E quando cessa questo viavai di gente, e questo affollarsi di vetture, di omnibus e di tramways?
La moltitudine che si pigia sui marciapiedi è in gran parte di forastieri. La nota dominante è spagnuola; segue l'italiana, con una certa sovrabbondanza d'elemento veneto. Inglesi pochi; tedeschi pochissimi; americani così così; qua e là qualche algerino col turbante, e un'aria di Beni-Mouffetard che consola. Sapete che cosa sono i Beni-Mouffetard? Alessandro Dumas ha raccontato in uno dei suoi mille volumi l'origine di questo nome, appioppato agli Arabi apocrifi, nati nella via Mouffetard, che è, od era, tra le più centrali, tra le più parigine di Parigi. Anche i francesi autentici si conoscono facilmente. La più parte hanno il nastro rosso all'occhiello. Si può credere che tutti i decorati della Legion d'onore si siano dati la posta a Parigi, per fare una esposizione dell'Ordine.
Dicono molti che il nastro sia necessario qui, per essere trattati con qualche riguardo. Parecchi italiani accettano il consiglio e mettono fuori il nastro verde, o bianco e vermiglio, o tutt'e due di costa. Io credo che non ce ne sia proprio bisogno. Ho anzi sperimentato che il mio scudo e il mio marengo hanno un valore uguale a quello di tanti cavalieri visibili, e che un «pardon» e un «s'il vous plaît» ottengono sempre ogni cosa da questo popolo gentile, anche quando questo popolo s'accorge che siete italiano e ricorda di vedervi volentieri come il fumo negli occhi.
Intorno a questo sarebbe necessaria una parentesi; ma la farò un'altra volta. Vi basti sapere che il francese è pieno di amabilità con tutti e che non occorre di mettere il ruban, salvo che lo si faccia per cavarsi la voglia. Nel qual caso, nessuno ride, come si riderebbe in Italia. Il ruban è la cosa più naturale del mondo e se ne fa qui un grande consumo, come da noi di prezzemolo. Perfino gli alabardieri delle chiese principali sono cavalieri della Legion d'Onore. Andate alla Trinità, come ci sono andato io, per veder tutto, e potrete ammirare un bel pezzo d'uomo, giovane ancora, con la mazza dal pomo d'argento, portare in processione per la chiesa la sua brava decorazione, mentre dietro lui, un prete sagrestano va attorno a raccattare i soldi dei divoti, durante l'elevazione dell'ostia.
A proposito di chiese, noto il particolare abbastanza curioso, ma per contro non abbastanza bello, che, per farvi vedere una cripta, una sagrestia, od anche semplicemente il coro, i preti vi sottopongono ad una tassa di cinquanta centesimi. Anche in questo caso c'è il vecchio sergente giubilato, avanzo glorioso di Magenta e di Solferino, che si adatta all'ufficio di guardia del tempio, per mostrarvi le ceneri di santa Genovieffa, o la tomba del signor di Voltaire. Questi due santi sono uguali, davanti ai cinquanta centesimi; purchè ve li piglino, i custodi del santuario non abbadano al modo. Noi, nelle nostre chiese, ci abbiamo la piaga del cicerone; ma questo si può mandarlo al diavolo come e quando si vuole, e i signori forastieri non si fanno pregare, per appigliarsi a questo espediente. Qui c'è la tassa di veduta, e non c'è modo di salvarsi, bisogna pagarla. A Nôtre Dame accade anche peggio; la porta laterale, unica aperta, strettita a bella posta, è occupata militarmente da venditori di coroncine, da mendicanti ufficiali colla piastra d'ottone, da monache le quali vi chiedono la carità pour leurs pauvres, da sagrestani che ve la chiedono pour l'obole de saint Pierre, e finalmente da un personaggio ambiguo, che intinge un pennello nella pila dell'acqua santa e ve lo mette gentilmente sotto il naso, perchè con una mano possiate dare al segno della croce la quantità d'umido che è necessaria a quest'atto, e con l'altra abbiate occasione di fargli aggradire un paio di soldi. Tutto ciò riesce molesto agli uni, offende il sentimento religioso degli altri. Io, per me, preferisco la beghinella romana, che vi s'accosta vergognosa alla svolta d'una colonna, e vi dice a bassa voce: «signore, la carità; sono una povera madre disgraziata.» Non mi parlino più con tanta sicumera dell'accattonaggio italiano; li ho visti alla prova, e mi tengo cari i miei cenci.
Del resto e dopo tutto, un popolo curioso e grazioso. C'è qui la buona grazia di chi vive allo stretto, e la tolleranza di chi può svoltare la cantonata e trovarsi subito al largo. Pazzie ed atti ragionevoli, virtù e vizi, qualità e difetti, mettono qui ogni cosa in comune, dandosi a vicenda del gomito e dicendosi «pardon.» C'è del buono, vi dico io, c'è del buono. Impariamo.