Non ho la sciocca pretensione d'aver fatto conoscere Parigi a qualcheduno, con queste lettere sconnesse, tirate giù alla buona, secondo l'umore della bestia e la varietà delle sensazioni quotidiane. Nutro cionondimeno la speranza di avere invogliato qualche fannullone emerito a muoversi, per vedere anche lui, e meglio di me, quella immane fioritura della Francia, che si chiama Parigi, e che non fa sempre dimenticare il suo vecchio nome di Lutezia. Andarci, potendo, non è solamente un piacere; è anche, e sopra tutto, un dovere.
I viaggi fanno un gran bene, oltre quello non lieve di un legittimo svago. La mente si rimpiccolisce, nel far la vita dell'ostrica; e non si merita neanco la riputazione dell'ostrica, la quale, poverina, se non adopera per sè quelle parti di fosforo, ond'è ricca per bontà di natura, le cede liberalmente all'uomo, quando è servita nel piatto. Se è giusto che noi dobbiamo arricchire lo spirito di utili cognizioni, per onorare, qualche volta, e sempre per servire la patria, è naturale che andiamo attorno quando possiamo, per riconoscere ciò che è buono e ciò che è cattivo in casa di vicini e lontani, per notare i segni di progresso e quelli di decadenza, per discernere quali siano le cose imitabili e quali le detestabili. Oramai le strade ferrate cingono il mondo in una rete, che è in gran parte più fitta di quella del Dio Vulcano, e non debbono, al pari di quella, servire soltanto per trastullo di Dei, di Semidei, abitatori felici delle altissime sedi. Vedere, sapere, giudicare con rettitudine, è un obbligo per tutti. Accanto all'amore esagerato di quella che Dante chiamò «l'aiuola che ci fa tanto feroci» vi è qualche cosa di peggio, l'ammirazione esclusiva dell'ortino domestico. Adoperando in tal guisa, anche con le migliori intenzioni del mondo, si guasta il senso della vista, che è tutto di paragone, e si finisce a vivere contenti delle piccole cose, a coccolarsi nelle quistioncelle domestiche, ad amar poco e male la patria, che vuole un amore intelligente e ragionevole e il concorso di sane ambizioni, continuamente stimolate dal pensiero di ciò che altri fa, trovandosi in condizioni, qualche volta migliori, e qualche volta peggiori di noi.
Un viaggio a ritroso nei campi della storia c'insegna ad aver misura e ad usare prudenza, per conservare alla terra nostra i frutti di una fortuna che non possiamo vantarci di aver sempre meritata. Un viaggio, dirò così, laterale tra i vivi, ci reca il medesimo insegnamento, e può riuscire una doccia salutare a molte follie, un correttivo a molti storti giudizi, a molte fallaci speranze. Tra le lustre di cui oggi si pasce il mondo, o che la moda gli fa parer belle, c'è anche la famosa e non mai abbastanza esaltata «fratellanza dei popoli». Gli ideologi della politica si trovano da per tutto, e non è meraviglia che voci amiche ci chiamino al «banchetto delle nazioni» anche di là, dove i padroni di casa avrebbero in mente di assegnarci l'ultimo posto, e di farci all'occorrenza star su, per dare una mano alla gente di servizio. Per me, non nego la fratellanza; vedo anzi i fratelli, che piatiscono spesso davanti ai tribunali per la successione paterna, e penso che se noi, almeno noi, potessimo esser giusti e imparziali con tutti i figli di nostro padre, e dare avviamento a transazioni onorevoli, avremmo già fatto molto per l'ideologia, e quello, per l'appunto, che gli altri, anche ideologi, non hanno incominciato a fare con noi.
Vi ho già detto (più d'una volta, mi sembra), che a Parigi, in questo cuore della Francia, ci amano poco e ci conoscono meno. Non so se, conoscendoci di più, ci amerebbero anche di più; ma certamente ci renderebbero giustizia, e l'amore verrebbe dopo. Comunque sia, vediamo di non essere ingiusti noi altri e sappiamo distinguere. Parigi è una città che ha del buono e del cattivo, ma l'uno e l'altro in misura straordinaria. Non vorrei meritarmi le folgori che Vittor Hugo ha minacciate ai calunniatori di Lutezia; mi affretto a dire che l'ho trovata bella, stupenda…. abitabile. È la città del forastiero; anzi, aggiungo che è una città di forastieri, e in questo dee forse vedersi la causa di tanta corruzione elegante, di tanta frivolezza ordinata. Tutti gli scettici gaudenti delle cinque parti del mondo calano a questa insegna; corrotti e corruttori inconsapevoli, non domandano altro che un giorno senza dimani, un passatempo senza noie, un pensiero senza fatica di spirito. Parigi vi dà ogni cosa in punto, senza farvi aspettare, quasi senza lasciarvi il tempo di desiderare; nessuno tra i felici della terra, neanche Luigi XIV redivivo, potrebbe dir qui: «j'ai failli attendre». Perciò è lodata, accarezzata, adulata; perciò si fa in quattro, lieta di poter corrispondere a tante adulazioni; lavora, ma per abbellirsi; studia, ma per riuscirvi più cara; e, in questa cura assidua di sè, la bella lusinghiera spende il danaro della Francia. Si contentasse di quello dei forastieri! Ma no, ci ha da correre anche quello della famiglia. È bella, e tutto le è dovuto; è nervosa, bizzarra, fantastica, e non si può contraddirla. Non la confondete con la Francia, sana, potente e magnanima donna; è sua figlia, sangue suo, un po' mescolato se vogliamo, e comanda alla mamma. Ora, questo è un male, non bisogna tacerlo. Voi mi direte che la Francia ha qui tutti i suoi rappresentanti, i quali potrebbero vigilare, metter rimedio, impedire…. Ma che? il potere di questi valentuomini non è che apparente; la signorina comanda a bacchetta e lo ha dimostrato in molte occasioni. Mettete questi rappresentanti nel novero degli zii da commedia, che vengono con le intenzioni più ferme, si lasciano ammaliare dai vezzi della nepote e finiscono col fare essi medesimi più sciocchezze degli altri.
Benedetta figliuola! Chi potesse sapere tutto quello che hanno inghiottito queste raccolte preziose, queste istituzioni magnifiche, queste novità sfolgoranti, perfino queste inutilità che la fanno così bella, e dire quante esistenze ha distrutte, quante intelligenze ha sfibrate costei, per cavarne quello stillato di eleganze, quella quintessenza di delizie della forma e del pensiero, con cui essa inebria il mondo e lo governa, troverebbe forse che la Francia, la madre generosa e condiscendente, ci ha rimesso un tanto di forza vera e veramente preziosa. Troppo logoro di carboni, per una luce che abbarbaglia, ma che non si può derivare in tubi, per uso comune di un popolo! Veduta Parigi, chi si occupa di vedere più altro? La Francia non si visita più, o poco e alla sfuggita; tutto l'opposto di ciò che avviene in Italia, ove ogni città possiede la sua fisonomia particolare, la sua ricchezza, la sua importanza, e la possederà ancora, se Dio vuole, quando avremo cinquecento anni di accentramento politico.
L'accentramento soverchio, ecco il male della Francia; e in questo le nocquero ad un modo i suoi re, i suoi ministri, i suoi imperatori, le sue stesse fortune militari. Speriamo che il reggimento repubblicano le porti un rimedio efficace. Per questa speranza, si può perdonare alla repubblica odierna il suo primo errore, come certuni chiamano l'esposizione mondiale, che costò sessanta milioni e non ne diede che trenta, a rifare la spesa. I forastieri, ed anche per una gran parte i provinciali, hanno portato per cinque o sei mesi il loro danaro a Parigi, che ne ha avuto per sè tutto il vantaggio, lasciando alla Francia trenta milioni di debito. Parigi si è arricchita di cento milioni; la Francia si è impoverita di trenta. È poco, si dirà; ma è di quel poco che dura da secoli, e voi potete metterlo insieme con tutto quello che costano alla Francia i gentili capricci di Parigi, di questo ragazzo viziato, che tutti esaltano pel suo sennino precoce, per le sue scappate graziose, per le sue moinerie adorabili, ma che finisce con essere la disperazione della casa.
Che cosa impareremo noi da questo raffronto? A non desiderare, come qualche volta ho inteso, che Roma diventi Parigi. Badate, io non credo che la cosa sia neanche possibile per via approssimativa. Fa ostacolo il carattere diverso delle due popolazioni, l'una socievole, amena, volubile, l'altra severa, contegnosa, e diciamo pure quasi rustica, chè tanto non gliene importa nulla di parer tale, e sarebbe perfino capace di gloriarsene. Sacra Roma, è così che ti amo. Cionondimeno, poichè forastieri ne vanno dappertutto, e a Roma per millanta ragioni ci abbondano, è da vedersi se Roma potrà mai sacrificar loro qualche poco di sè stessa, come ha fatto Parigi. Anche qui, sostengo e dico che la cosa non è possibile. Centro ed emporio, cervello, cuore e tutto quel che vorrete del mondo, lo è stata due volte anche lei, ma conservando le sue usanze casalinghe, la sua fierezza laziale. Non ci stilliamo il cervello a foggiarla diversa. Rovina, o museo, conservi il suo carattere; non le si tocchi nulla, nè una pietra, nè un'anima. Lavoriamo invece a romanizzare noi stessi; la cosa non dev'esser difficile, poichè Roma aveva già fatto il miracolo venti secoli addietro. Scaviamo il Tevere e facciamogli la via più spedita, poichè gli straripamenti davano noia ai Quiriti fin dai tempi di Mecenate e d'Orazio; ma scorra il fiume attraverso la città, nell'alveo sacro delle tradizioni italiane. Un boulevard, foss'anche des Italiens, credete a me, guasterebbe là in mezzo. Il Corso si può a mano a mano slargare; ma non c'è fretta; le bellezze della avenue du Nouvel Opéra non debbono farci dimenticare che la via Flaminia era stretta come ora, al tempo in cui ci passeggiavano i padroni del mondo. Non vi parlo della via Sacra, che era un vicolo a dirittura, e giungeva al Campidoglio ugualmente. Restauriamo, insomma; non invidiamo gli allori altrui, non ci lagniamo se la natura e la storia ci hanno fatti diversi dagli altri. In questa diversità di aspetti e di indole è la nostra forza; a buon conto, c'è stata la nostra custodia fin qui.
Capisco, ci sono certe delicatezze che non guastano, in nessuna parte del mondo. Ma facciamo un pochino come i nostri gioiellieri, che svecchiano con tanto amore le antiche forme paesane. C'era buon gusto anche in Etruria; non ne pativano difetto Ercolano e Pompei. E quando, a fianco delle nostre grandezze, vediamo i segni di un modesto costume che ha trionfato dei secoli, non ci lagniamo di quel modesto costume; è grandezza anche quella, e si chiama costanza.
Una notte dell'anno scorso, avevo fatto tardi per le strade di Roma. Tornavo a passi lenti verso casa, in compagnia d'un amico, che doveva fare il medesimo tratto di strada, ma per andare più oltre. Poche ore prima, si era applaudito al teatro Valle un suo lavoro, ricco di bellezze romane e di eleganze niliache; quindi si era offerto all'amico il litro d'onore, più caro a lui d'una corona d'alloro; ed egli, ancora un po' scombussolato dalle commozioni della sua serata campale, se ne tornava al suo Trastevere, dove lo aspettava una madre giustamente orgogliosa, una madre che certamente quella notte doveva dormire assai meno di lui.
Roma taceva, già immersa nel primo sonno. Ad un tratto si udì un rumore confuso, che divenne a mano a mano un gridìo di voci lamentevoli e finalmente un fragore di marosi in tempesta.
—Che diavol è?—domandai.
—Fàtti in qua;—mi disse l'amico, coll'aria d'un personaggio da tragedia, che faccia una variante al famoso: «ritiriamci in disparte ed osserviamo».
Poco stante, due o tre cavalli, montati da contadini, apparivano allo sbocco della via, scalpitando sul selciato, che dispiace tanto ai buzzurri, e non è niente più noioso di quello di mille cinquecento vie di Parigi. Dietro a quei cavalli, uno sciame, un esercito, un nembo di pecore, che correvano belando e s'incalzavano a migliaia, le une sulle altre, incalzate a lor volta, stimolate ai fianchi e alle spalle, da una mezza dozzina di cani, tutti compresi della importanza dell'ufficio. La processione durò forse mezz'ora, in una via che non era sicuramente delle più strette di Roma.
—Si può sapere il perchè di questo esodo?—chiesi all'amico, mentre la turba belante ci passava davanti.
—Son pecore che mutano di pascolo;—mi rispose.
—E proprio hanno a passare di qua?
—To', sono anche passate pel Corso. Entrate da porta Pia, escono da porta Cavalleggeri. I pascoli del monte Sacro sono finiti; ora vanno ad attaccare quelli del Gianicolo.
—Usanza strana!—mormorai.
—Strana, ma antica; non dovrebbe dispiacerti.
—Hai ragione, e resti pure così, come al tempo di Catone il Censore, quando le greche eleganze trionfavano della prisca severità. Povera o ricca, virile o effeminata nel suo patriziato, crudele o generosa nella sua plebe, Roma ha serbate le sue costumanze. Solo nel culto delle tradizioni, solo nella costanza dell'indole patria.—
Il discorso, avviato su quella china; poteva andar molto in là; ma l'angolo di San Tommaso in Parione era il punto e basta fra i due interlocutori. L'amico doveva proseguire per Campo di Fiori, e forse m'avrebbe lasciato sfogare; ma io, lettori pazienti, e degni di miglior sorte, io ero fortunatamente davanti all'uscio di casa.
Parigi, 15 ottobre 1878.