Si può andare a Versaglia, anche passando dalla riva sinistra della
Senna. Parigi ha due scali di partenza per Versaglia, e, perchè le due
linee ferrate non si congiungano strada facendo, ne viene che
Versaglia abbia due scali d'arrivo; tout comme à Paris, dicono i
Versagliesi, non senza un miccino d'orgoglio.
La strada, sia che andiate per la riva destra, sia che andiate per la riva sinistra, è incantevole; tutta in mezzo a villini bianchi e rossi, coi tetti a capanna, castelli in miniatura, ascosi come nidi di scriccioli tra le siepi, colmi di case che si direbbero aggruppate a forma di città da un fabbricante di balocchi di Norimberga; e sempre in vista della Senna, che si divalla lì presso, in un ristretto orizzonte, con le sue rive incoronate di salici. Super flumina Babylonis; è proprio il caso. Colori dominanti del paese, il bianco latteo delle casine, il rosso mattone dei tetti, il verde tenero della frappa; aggiungerete l'azzurro pallido del cielo, quando è sereno, e avrete una campagna, che può benissimo non apparir bella nei quadri, una campagna a cui mancano le tinte vigorose e i riflessi dorati dell'italiana, ma che riposa l'occhio e contenta lo spirito. Per viverci, per dimenticarcisi ed essere dimenticati, che cosa si domanda di più?
Le stazioni sono graziosine; casette da due piani, attorniate, accarezzate, prese d'assalto da famiglie di piante rampicanti, aperte nel mezzo da una gran sala d'aspetto, che durante l'inverno si chiude tutta con una grande invetriata. Gente, in queste oasi ferroviarie, pochina; se non fosse lo chocolat Mènier, o un Pas de concurrence possible, che vi perseguita anche là, coi suoi cartelloni luccicanti, vi credereste d'essere in capo al mondo, non alle porte di Parigi. Ecco Saint Cloud; nessuna magnificenza vi annunzia la vicina residenza imperiale; il castello vi è nascosto all'occhio da un poggio, o da una piccola macchia. Sèvres, là in fondo alla valle, non vi lascia intendere dove siano le sue fabbriche di porcellane, celebrate nel mondo. Passando per Asnières, vorreste riconoscere il villino di Margherita Gauthier; ma non c'è caso, i villini si seguono e si rassomigliano tutti, nella piccolezza, nella grazia, direi quasi nella discrezione con cui vi mostrano, o vi nascondono, la felicità dei loro penetrali. Perfino Versaglia, la fastosa Versaglia, dove arrivate finalmente, scendendo da una stazione che vorrebbe parere grandiosa, non vi lascia indovinar nulla de' suoi regali tesori. È una città di provincia, o, per dir meglio, malgrado la contraddizione apparente, una città di campagna, di villeggiatura. È nata sotto Luigi XIV, non lo dimentichiamo; e quando il re Sole abitava il palazzo edificato a lui dal Mansart, non si poteva mica alloggiare tutta la corte entro i cancelli della reggia. La città è debitrice della sua esistenza ad un rigurgito, ad uno stravaso, di quella reggia pletorica. Strade larghe e vuote, viali alberati in cui non si vedono quattro persone a diporto, palazzi grigi che paiono caserme e che hanno l'aria di non conoscersi l'un l'altro, agglomerazione di solitarii, ecco la città, come si presenta oggi all'occhio del forastiero. Ci sono parecchie trattorie, il che a tutta prima vi farebbe credere che almeno la popolazione avventizia dei senatori, dei deputati o dei curiosi, può in certe ore del giorno simulare lo spettacolo d'una città viva. Ma non è vero niente; senatori, deputati e curiosi vengono qua dopo aver fatto colazione, aguzzano il loro appetito e lo riportano a Parigi. Solamente a Parigi si trovano il pied à la Saint-Menéhould e la sôle au gratin, che levano tant'alto la cucina francese al cospetto delle nazioni. E i trattori di Versaglia aspettano invano la folla; i ragni della città cenobitica ci rimettono la spesa e la fatica della tela.
Con me ha fatto meglio le cose sue un fiaccheraio, che, allungandomi di non so quanti chilometri la via dalla stazione al castello, mi persuase a salire nel suo trespolo, e poi, in quattro minuti di corsa, mi depose sulla piazza grande, davanti al famoso cancello. Diedi un mesto pensiero a due lire sprecate e mi guardai d'intorno. La piazza è fatta a pendìo; due caserme da un lato, e in mezzo ad esse il gran viale che mette a Parigi, chi voglia andarci in carrozza; dall'altro il cancello lunghissimo, che custodisce la Corte di marmo. Questa Corte, fiancheggiata da palazzi di vario stile, che si vanno restringendo a mano a mano, toglie maestà all'edifizio principale, che si scorge nel fondo. E questa, domandate tra voi, è questa la gran reggia di Luigi XIV? No,—vi potrebbe rispondere un cicerone di piazza, se udisse la vostra domanda interiore;—quello è il palazzo edificato da Luigi XIII e conservato, incastonato dall'architetto Mansart nel palazzo dieci volte più vasto, che sorse per volontà del figliuolo.
Del resto, bisogna entrare in quel palazzo più antico, per vedere che la residenza campestre del marito d'Anna d'Austria è bella anch'essa di molto e meritava di sopravvivere. Bisogna poi uscir fuori, dall'altra banda del palazzo vecchio e del nuovo, vedere così in di grosso i piazzali, le terrazze, i giardini sterminati, voltarsi indietro a contemplare quella lunga e nobilissima facciata, tutta portici e colonne, per rimanere stupefatti, o, a dirla volgarmente, rintontiti. Questa gran fabbrica, questo capolavoro del Mansart, non ha rivali nel mondo. Lo spazio aiuta a dargli rilievo, e forse una cosa simile si poteva fare soltanto qui, dove c'era la libertà dello spazio. Doveva esser così la Domus aurea, fabbricata da un Luigi XIV dell'antichità (Nerone, se permettete), quella Domus aurea che dal Palatino giungeva all'Esquilino, attraversando la Velia. Ma la casa di Nerone bisogna raffigurarsela con la fantasia; qui abbiamo la realtà. Quelle linee eleganti e maestose ad un tempo, quella prospettiva di viali e di statue, di vasche e di laghi, vi comprendono di meraviglia e di piacere, come è naturale che avvenga, quando il concetto della grandiosità non si scompagna da quello dell'armonia. Ho pensato qui, senza il menomo desiderio di trovare un paragone, ho pensato alle sinfonie del Rossini, a quelle musiche così fitte e così chiare, così severamente architettate, eppure così piene di fioriture, così strette alla misura, così ricche di varietà.
In questa fusione (non confusione) di generi, consiste per l'appunto il sommo dell'arte. A Versaglia l'eleganza e la magnificenza si sposano; cioè, si sono sposate e vivono da dugent'anni in fortunata armonia. Oltrepassate quel terrazzo e quella spianata; quindi, voltatevi indietro. Il palazzo non è più un palazzo; ha l'aspetto d'un tempio greco, ingrandito una ventina di volte, che biancheggia tra due timide masse di verde e sotto un padiglione d'azzurro. Per una volta tanto, l'architettura francese ha abbandonato que' suoi tetti rilevati a cono; abbiamo dei tetti all'italiana, mascherati per giunta da un attico che corre per tutta la lunghezza della cornice. Voltatevi ancora e guardate quel viale, anzi meglio, quei viali interminabili, accompagnati da quelle statue e da que' vasi monumentali di marmo, interrotti da quei laghi, da quelle fontane, orlati da quelle siepi gigantesche; che cosa immaginare di più grandioso e tuttavia di meno fastoso, di meno opprimente! L'arte ha soggiogato la natura, ma con garbo e quasi per fargli piacere; la verdura, stagliata in larghe messe simmetriche, ma senz'ombra di tirannia, si armonizza coi monumenti disseminati a profusione da per tutto; lo stesso orizzonte, imprigionato tra quelle digradazioni sapienti, o sia perchè non offre linee spezzate alla vista, o sia perchè la grandezza dell'opera artistica è stata condotta a non parer da meno di quella della natura, si acconcia volentieri alla servitù, obbedisce senza sforzo, par libero.
Era questo che voleva Luigi XIV? Non so, credo anzi che egli in tutti questi accorgimenti non ci abbia nulla a vedere. Se un architetto gli avesse detto che l'orizzonte, in materia di prospettiva, ha i suoi diritti, avrebbe forse risposto a quell'architetto: «l'horizon c'est moi.» Diciamo dunque: fu un uomo potente, che seppe volere una bella cosa per appagare il suo fasto, la sua boria di nuovo Sesostri, e ottenne, grazie all'ingegno del Mansart, un'ottava meraviglia, su cui era giusto che stampasse il suo nome, perchè era lui che snocciolava i quattrini. Mi domanderete da che casse li pigliava, se non forse da quelle dello Stato. Ma il gran Luigi vi risponde per me, come ha risposto al Parlamento: «l'Etat c'est moi.» Vedetelo dipinto almeno un centinaio di volte, in tutti i quadri che illustrano i grandi fatti del suo regno. In quelle fredde e vuote composizioni, non è in luce, non è in vista che lui. Volete l'assedio d'una città nemica? Eccolo; il re Sole a cavallo, che visita una trincea. Il famoso passaggio del Reno, per cui s'innalzarono archi di trionfo a Parigi? C'è anche quello, rappresentato da una campagna grigia, nel cui fondo non si vede più nulla, ma sul cui primo piano spicca un cavaliere, circondato da due o tre generali che paion valletti. È il re Sole, che vi guarda colla coda dell'occhio grifagno e sembra che voglia dirvi: «le passage du Rhin… c'est moi.» È lui, sempre, è lui ogni cosa; fulmine di guerra, redivivo Pelide, tutti i guerrieri dell'antichità possono andarsi a riporre;
Non illi quisquam bello se conferet heros.
Ma di Luigi XIV e della sua boria mi occorrerà di parlare più oltre. Sbrighiamoci da quattro cenni di storia. C'è anzi tutto il nome di Versaglia, che domanda uno schiarimento. Or dunque, dovete sapere che nelle vecchie cronache si parla di un Ugo de Versaliis, contemporaneo dei primi re Capetingi, il quale possedeva in questo luogo la sua bicocca feudale, non avendo altro vicinato che la prioria di San Giuliano, la cui campanella era la sola che rompesse di tanto in tanto i silenzi della vallata e probabilmente anche i timpani del sullodato cavaliere. Nel secolo XVI, l'ultimo feudatario di Versaglia, un Marziale di Léomenie, per cansare la strage di San Bartolomeo, si raccomandò al signor di Gondy, maresciallo di Retz, facendogli dono di tutti i suoi beni; il che non tolse che il bravo maresciallo lo facesse scannare, e un 28 d'agosto, ricorrendo la festa di San Giuliano, si facesse riconoscere seigneur de Versailles, prendendo sotto il baldacchino della prioria il posto dello sventurato Marziale.
Ignoro come fruttasse al Gondy quella roba di mal acquisto. So invece che Luigi XIII, il quale andava spesso a caccia da quelle parti, e trovava riparo in un mulino, diventato il suo quartier generale, commise all'architetto Lemercier di fabbricargli colà un palazzo di campagna. Fu quel medesimo palazzo che il Mansart incastonò più tardi nella sua costruzione, quando a Luigi XIV piacque di avere un alloggio suo, proprio suo, sbalorditoio, come la fama, la grandezza, la magnificenza, che egli si figurava di avere.
Ingannato, dopo tutto, guastato dalle lodi d'un secolo cortigiano, come dalla fortuna che un italiano, il Mazzarino, aveva preparata al suo regno! Non era forse per lui che un uomo come il Boileau scriveva il verso curioso:
Grand roi, cesse de vaincre, ou je cesse d'écrire?