Come una statua monca, e rotta per di più in cinque o sei pezzi, abbia potuto infiammare la fantasia, non solamente a me, che son l'ultimo degli ultimi, ma a parecchie generazioni di poeti e di dotti, di orecchianti e di orecchiuti, è cosa veramente degna di nota, ed anche un pochino di studio.
È giovata a questa Venere la storia del suo ritrovamento; poi la controversia lunghissima, e non ancora finita, intorno al vero suo essere; da ultimo, e più di tutto, il carattere singolare della sua bellezza. Come vedete, c'è qui l'embrione d'un panegirico, diviso in tre punti, secondo le buone regole della sacra eloquenza. Adottiamo quest'ordine prestabilito, che si conviene alla divinità del soggetto, e aiuterà in pari tempo a chetare i bollori della nostra ammirazione. Ecco la storia.
L'isoletta di Melos, oggi di Milo, è una delle Cicladi, ossia dell'Arcipelago greco. Aveva, in illo tempore, su d'una collina davanti all'ingresso della rada, un colmo di case, che parve un villaggio a Tucidide, ma che divenne una città bella e buona, con tanto di teatro, come attesta Diodoro Siculo e come le sue rovine dimostrano. Oggi la città è tornata un villaggio, e dicesi Castro.
Lassù, nel febbraio del 1820, presso alcune grotte sepolcrali sotto la cinta delle vecchie mura di Melos, un povero contadino, a nome Jorgos, stava lavorando di zappa intorno ad un vecchio ceppo d'albero, che voleva sradicare da un ciglione di terra. Ai colpi del contadino, il ceppo, scambio di balzar fuori, si affonda in una buca. Jorgos, senza volerlo, ha scoperto un ipogèo, una specie di grotta quadrata, larga da quattro a cinque metri e profonda altrettanto, rivestita d'intonaco, non senza indizii di quadrature policrome. Da buon greco moderno, che conosce il pregio di simili incontri, Jorgos discende nel sotterraneo, e trova, mezzo affondate nel terriccio, parecchie erme di Dei, come un Mercurio, un Bacco indiano, e finalmente il torso d'una Venere, mancante delle braccia e di tutta la parte inferiore, dall'anca in giù. Lavora indefessamente e trova il resto della statua, fino al plinto, insieme con rottami di braccia e di mani, di zoccoli, d'iscrizioni e via discorrendo. Da quegli avanzi non c'è modo di ricomporre le braccia della Dea. Ci sono, per esempio, tre mani; ma quali sono veramente le due che le convengono? Jorgos non sta a beccarsi il cervello; ha il grosso della statua, e questo gli basta per capire che egli tiene in poter suo un capolavoro dell'arte antica e che potrà cavarne un bel gruzzolo di piastre.
Quella Venere, evidentemente, era stata calata entro la buca da qualche divoto, ai tempi in cui prevaleva la religione ufficiale di Costantino, e forse qualche anno dopo il famoso editto di Teodosio, quando i vescovi andavano attorno, armati del braccio secolare, ad abbattere i simulacri, a diroccare i templi della vecchia religione pagana. È noto che la più parte delle antiche statue furono conservate alla posterità con questi inganni pietosi; tra l'altre la Venere Capitolina e l'Ercole Mastai.
Fatta la scoperta di Milo, il signor Brest, agente consolare della Francia in quell'isola, ne avvisò prontamente il suo ambasciatore a Costantinopoli, che spedì a Milo un suo segretario, il visconte di Marcellus. Nel frattempo, aveva toccato a Milo la Chevrette, su cui era imbarcato un giovine uffiziale, il Dumont d'Urville, che vide la Venere, e l'avrebbe comperata per milledugento lire, se il comandante della corvetta non gli avesse dimostrata l'impossibilità di prendere quel sopraccarico a bordo. Giunto il Marcellus colla nave dello Stato l'Estafette, trovò che appunto allora la Venere era stata venduta per quattromila lire ad un frate. Come, ad un frate? Sicuro, al P. Economos, che, accusato di malversazioni a' suoi superiori, e chiamato a Costantinopoli per render conti, voleva con quel donativo ottenere la protezione di un Nicolaki Morusi, dragomanno dell'Arsenale. Si oppose a quel contratto il Marcellus presso i primati dell'isola, e, quantunque la statua fosse già stata imbarcata su d'un brigantino greco sotto carica per Costantinopoli, ottenne di farla trasbordare sull'Estafette, pagandola seimila lire al contadino, in nome del suo ambasciatore, il marchese di Rivière. Dispiacque la cosa al Morusi, cui il frate era andato a lagnarsi; i primati di Milo furono presi, bastonati senza misericordia e condannati a pagare una multa di settemila piastre. Li rimborsò il generoso signor di Rivière; ottenne che il governo turco facesse delle scuse; ma le bastonate nessuno potè più levarle ai poveri anziani dell'isola.
La Venere di Milo giunse a Costantinopoli il 24 di ottobre. Vederla e desiderare di trovare le braccia mancanti, fu un punto solo pel marchese di Rivière. Ma le ricerche riuscirono infruttuose, quantunque andasse egli in persona. Certe estremità, rinvenute nell'ipogèo, o poco lunge di là, non offrivano la medesima bontà di lavoro; altre, come ho già detto, ridotte a pochi frammenti, non si prestavano ad un restauro neanche approssimativo. C'era quel pezzo di mano col pomo, che poteva far credere ad una Venere vincitrice del giudizio di Paride; ma, senza contare la nessuna certezza che fra tre mani rinvenute nell'ipogèo, quella del pomo fosse proprio da attribuirsi alla statua, parve che con questa faccenda del pomo non si accordasse troppo il ritrovamento contemporaneo d'un pezzo di zoccolo, o plinto che si voglia dire, la cui frattura combaciava col plinto della Venere, e la prolungava in modo da far supporre la presenza di una seconda statua, più piccola, e non certamente di proporzioni corrispondenti alla prima. Sul piano di quel frammento vedevasi appunto una incavatura, adatta a ricevere il piede della statua minore; sull'orlo, poi, si leggeva una iscrizione, che, supplita di tre lettere in ognuno de' due capiversi, diceva così:—Agesandro, figlio di Menide,—d'Antiochia sul Meandro,—fece.
Il ritrovamento di questo zoccolo, a cui non si pose troppa attenzione da principio, guasta le uova nel paniere a coloro che pretendono la Venere di Milo essere stata accompagnata ad un Marte, come si vede in parecchi gruppi dell'antichità. Quello zoccolo non presenta la larghezza necessaria a sostenere un Marte. Inoltre, esso è alquanto più alto del plinto su cui poggia la Venere; il qual plinto, precisamente sotto il piè sinistro della Dea, s'innalza un pochettino anch'esso, come per accompagnarsi a quell'altro. C'era proprio bisogno di alzare la base, per collocarvi il dio della guerra, già naturalmente più alto della sua pretesa compagna?
Ma allora? che cosa ci poteva stare su quello zoccolo di giunta? O un cippo, un'erme, come si ha in un esemplare d'Afrodite, conservato nel Museo britannico; oppure…. oppure quell'unico tra gli Dei che, oltre l'avere una stretta relazione con Venere, ha la statura più piccola e fa intendere e rende naturalissimo quel rialzamento di base. È un'idea mia, nata da un pezzo, fortificata da una visita al Museo nazionale di Napoli, diventata certezza davanti a quel frammento di base, o, per dire più esattamente, al disegno che ne ha fatto nel 1821 il signor Debay.
Andate nel Museo Nazionale di Napoli e vedrete laggiù la Venere Vincitrice, così detta di Capua. È nel medesimo atteggiamento della Venere di Milo; gli occhi a mezz'aria, il piede sinistro su d'un elmetto posato a terra; il braccio sinistro levato, per sostenere una lancia; il destro abbassato, coll'indice teso in atto di comando. Davanti a lei, e molto accosto è Cupido, coll'ali dimesse; nella mano sinistra tien l'arco, e nella destra una freccia, che offre riverente alla madre. Guardate al Louvre la Venere di Milo. L'elmo sotto i piedi non c'è; ma di queste varianti d'esecuzione son molti gli esempi. Abbiamo per contro l'assoluta somiglianza nei rispettivi atteggiamenti degli omeri, indizio certo di una identica azione delle braccia. Se a questo aggiungete il resto di base, la cui frattura perfettamente combacia col plinto, mentre il piccolo spazio del suo piano e l'incavatura nel mezzo paiono fatti a posta per dar luogo ad una figura d'adolescente, in grande dimestichezza colla Dea, non avrete più modo di dubitare. La Venere di Capua ha una sorella; sorella maggiore, mi affretto a confessarlo. Quanto alla storiella della Vittoria, sul fare di quella in bronzo del Museo di Brescia, non è più il caso di parlarne. La Venere di Milo non può essere una Vittoria, più di quello che lo sia la Vittoria di Brescia, che è una Venere anche lei, alla quale un bel giorno, probabilmente sotto Vespasiano, fondatore del tempio in cui essa è stata rinvenuta, furono aggiunte le ali e lo scudo. La posteriorità della raffazzonatura è evidente. Del resto, sia Vittoria, o Venere, quella di Brescia ha il peplo, e quella di Milo è sempre più Venere di lei, perchè ha il torso nudo. E che torso, e che nudo!
La statua, per dirvi tutto, è di marmo corallitico; un marmo d'Asia, assai lodato da Plinio, che lo dice nella bianchezza e nell'apparenza molto vicino all'avorio. L'ipogèo, nel quale fu rinvenuta, è a cinquecento passi dal recinto del teatro di Milo, che forse era dedicato a Venere, come quello di Pompeo in Roma, e come in generi tutti i teatri antichi. La famosa Venere d'Arles fu appunto scoperta nelle rovine del teatro romano di quella città provenzale. Salviano, nel suo libro De gubernatione Dei, lasciò scritto: «colitur Venus in theatris.»
Quanta erudizione, buon Dio! Ma essa non è che la millesima parte di ciò che si è stampato intorno alla meraviglia di Milo. E anch'io, dopo tutto, ci avevo da dire la mia.
Resterebbe da aggiungere qualche cosa intorno alla bellezza scultoria dell'opera, che è veramente singolare, e corrisponde per l'appunto a quel ritorno allo studio del vero, che tenne dietro alla scuola di Policleto. Una certa sprezzatura artistica nel trattare i capegli denota l'epoca avanzata dell'arte. Quell'impercettibile mancanza di simmetria tra i due lati del viso, quella lieve irregolarità nelle proporzioni del collo, ed altre piccole licenze, che non isfuggono all'occhio esercitato dell'artista, accennano alla copia d'un modello vivente, anzi che alla stretta osservanza dei cànoni. Il pensiero corre involontariamente a Lisippo, che teneva in molta stima i trattati di Policleto, da cui confessava di aver cavato tutto il suo sapere, ma che, additando i viandanti a' suoi giovani allievi, diceva loro: «siano questi i vostri esemplari.» Massima eccellente in bocca a Lisippo, il quale non perdeva di vista i principii, e ricordava con reverenza i maestri.
Qualunque sia, Agesandro o Lisippo, l'autore, questa Venere è un felice impasto di grazia soave e di grandezza eroica. È monca e piena di rappezzi; ma la divinità di quel torso e di quella faccia, l'eleganza snella e giovanilmente materna delle sue proporzioni, sono tutto quello che si può immaginare di più bello in arte e in natura. Veduta lei, manca la voglia di veder altro, e ci si scalda poco per quella raccolta d'imperatori romani, che è veramente tra le più ricche d'Europa. Figuratevi che d'ogni imperatore, busto o statua, ci sono due, tre, quattro, fino a sei esemplari. Tra i più rari ho notato un Pertinace, nudo e colossale, e un Nerone, alquanto più grande del vero; per contro, essendo in marmo, dee ritenersi meno briccone del vero.
Finirò con una statua di Messalina Augusta, che mi ha grandemente colpito; grassotta, genialotta, cogli occhi un po' grossi, alla guisa di certi miopi, i ricciolini sulla fronte, ravvolta in una sontuosa rica, e con un bambino nelle braccia: il suo generoso Britannico, di cui parla Giovenale, in un verso orridamente famoso.
È strano l'effetto di quella statua. Se in cambio di trovarla a Roma dugent'anni addietro, vale a dire in terra di pagani e in un tempo assai più pagano del nostro, l'avessero scoperta dieci anni fa, sul territorio di Lourdes, si sarebbe gridato al miracolo, e la portentosa immagine di Nostra Signora, innalzata sugli altari, farebbe prodigi a bizeffe, coi ciechi, con gli storpi, e magari anche con le donne sterili.
Debbo confessare tuttavia che un miracolo essa lo ha fatto per me, quantunque non trasformata da nessuna apoteòsi. Dopo averla considerata un bel pezzo, mi sono appressato a lei e le ho bisbigliato un nome; non già quello di Claudio, non già quello di Silio; il nome di Pietro Gossa. E quella briccona mi ha fatto il bocchino.
Lo credo, io!