L'Istituto, l'Accademia, l'Osservatorio, l'Università, la Sorbona, gli Archivii, la Scuola paleografica; ecco un bel numero di cose che vorrebbero essere attentamente studiate. Queste ed altre, che per amore di brevità non accenno neanche, son glorie vere e durevoli della Francia; parecchie di queste non hanno riscontro presso le altre nazioni: tutte concorrono a darlo il primato in quella che si potrebbe chiamare la distribuzione del pensiero moderno, agevolata dall'uso di una lingua che tutte le persone un po' colte, o parlano, o cincischiano, o almeno intendono, nelle cinque parti del mondo. Ed è naturale che sia così, poichè la lingua dei gallo-franchi, impastata di tanta romanità, favorita da tanti secoli di fortuna politica, è come l'anello di congiunzione tra le lingue nordiche e le meridionali d'Europa. Ma, tornando alle cose di cui sopra, io sono pur costretto a passarmene, perchè queste lettere non eccedano la misura della discrezione. Immaginando che siate stanchi di palazzi e di musei, lascio da banda il Lussemburgo, un Pitti parigino, col suo giardino maraviglioso, che fu tracciato pensando a quello di Boboli. Non vi trattengo neppure coi pochi avanzi romani di Parigi, nè coi molti medievali, tra cui l'elegantissima torre di San Giacomo e la severa cattedrale di Nostra Donna, che mi condurrebbero Dio sa dove, fors'anco a parlarvi dell'arte gotica; un'arte che io, mezzo pagano, ammiro grandemente, ma senza capirla poi troppo.
Ci sarebbe da descrivere i giardini, i parchi, le passeggiate campestri, per cui Parigi è famosa. Infatti, le delizie di questo genere non si restringono tutte nel bosco di Boulogne e nei Campi Elisi. Per esempio, una lettera la vorrebbero per sè quelle amenissime Buttes Chaumont, gruppetto di colline, tra cui, da un avvallamento di verdura, si rizza una balza acuta, sormontata da una specie di Tempio della Sibilla, come nelle vicinanze di Tivoli. Ma la lettera non sarebbe che un esercizio di stile, da farsi ammirare, o accoppare, secondo i casi, e nell'uno o nell'altro, da non farsi capire. Io, già lo indovinate, non riuscirei che a farmi accoppare; ergo, acqua in bocca. E taccio, per la stessa ragione, del Jardin d'acclimatation, vastissimo ritrovo, di piante esotiche e d'animali domestici delle varietà più rare; taccio del Jardin des Plantes, ancora assai ricco per la sua flora, ma non più tanto per la fauna, ond'era in altri tempi così celebre. I leoni, le tigri, le pantere, i leopardi, ed altri nobili rappresentanti della famiglia felina, debbono aver lasciate le polpe nell'assedio del 1870. Per contro, è rimasta incolume la bellissima collezione di rettili, tra cui molti coccodrilli, boa, serpenti a sonagli, pitoni, naje, aspidi di Cleopatra, vipere, ceraste, e via discorrendo; nè occorre il dirne la ragione ai lettori.
Sarebbe piuttosto il caso di una lunga fermata all'Hôtel des Invalides, monumento ed istituzione ugualmente ammirabili, e per sè stessi, e pel museo d'armi e d'armature, che v'è annesso, dalle accette di selce fino alla mitragliatrice, dagli arnesi del guerriero gallo fino ai calzoni corti del soldato di Sambre-et-Meuse, con una giunta ricchissima di tutte le foggie antiche e moderne dei combattenti d'ogni parte del mondo. Ma anche questa sarebbe archeologia, e voi vorrete ormai tornare allo studio del vivo, magari anche uscir fuori da questo commercio epistolare. Prendiamo una via di mezzo; vi parlerò degli Invalidi, che abitano ancora là dentro, aspettando l'appello dell'ultima sera e i tre rulli del silenzio finale. Son gente malinconica e poco socievole, quantunque vivano insieme. Già, a quell'età, e venendo da corpi diversi, non è più il caso di stringer vincoli di famiglia posticcia. Mangiano e dormono sotto il medesimo tetto, ma si sparpagliano volentieri per le vie circostanti; quali a piedi, e sorreggendosi sulle grucce, quali in una carrozzella, di cui muovono i congegni da sè. I pochi che restano a soleggiarsi nel cortile, presso la batteria trionfale, composta di cannoni d'ogni forma e d'ogni provenienza, parlano poco e mal volentieri tra loro.
Io ne ho trovato uno molto cortese; ma la stessa sua cortesia mi è stata cagione d'un disinganno. Vedendogli qualche medaglia sul petto, gli avevo domandato quali campagne avesse fatto.—Des campagnes? Je n'en ai pas;—mi rispose—J'étais aux cuirassiers; je n'ai donné que dans les émeutes.—
Un soldato decrepito scaldava al sole il suo magro corpicciuolo e parecchie medaglie, tra le quali spiccava la stella della Legion d'onore. Chiesi al mio cicerone se quello fosse un soldato del primo Napoleone.—Sì,—mi rispose,—delle ultime campagne del grande Impero.—E quella decorazione?—Sì, è decorato; gli hanno reso giustizia.—Per qual fatto d'armi?—Per nessuno; l'ha avuta tre mesi fa;—mi rispose il cicerone corazziere. Capii così in digrosso, che, dopo un certo numero d'anni d'invalidato, si acquista il diritto alla stella. È una decorazione d'anzianità; quando uno l'ottiene, si può dire benissimo che gli hanno reso giustizia.
Gl'invalidi furono raccolti per la prima volta in questo ospizio da Luigi XIV. Anticamente, anzi fino dai tempi di Carlomagno, e in forza d'un suo decreto, erano posti a carico dei monasteri e delle abbazie, sotto il nome di oblati; cosa che non doveva piacer molto ai priori d'allora, nè dovrebbe piacere agli abati d'oggidì, comunque laudatores temporis acti. Luigi XIII fu il primo ad istituire una comunità ad hoc, sotto il nome di Commanderie de Saint Louis, ove gli storpi e i mutilati dell'esercito fossero alloggiati e nutriti. Il figlio compì l'opera del padre, allargandola alle proporzioni d'un grande ospizio, capace di duemila ricoverati.
Un po' di buona vita aveva fatto dei primi Invalidi la gente più allegra e burlona del mondo. Nacque allora la leggenda dell'invalido con la testa di legno, che i visitatori più semplici dell'ospizio andavano cercando di piano in piano, di camera in camera, senza trovarlo mai, quantunque ognuno degli invalidi, a cui si rivolgevano per informazioni, giurasse di averlo lasciato poc'anzi, in questo luogo, o in quell'altro, aggiungendo qualche volta che doveva essere andato dal barbiere, ma che non poteva star molto a ritornare. Per fortuna dei Calandrini, uscì fuori una Guide de l'Étranger à Paris, che, accennando a questo invalido con la testa di legno, soggiunse pietosamente: «qui jamais n'a existé.»
Ora, ve l'ho detto, gl'Invalidi sono diventati malinconici. Inoltre, vanno diminuendo; le pensioni, fatte più grasse, danno agio ad ufficiali e sott'ufficiali di andarsene a vivere in provincia, presso gli avanzi delle loro famiglie; meno bene, forse, ma con la loro bella indipendenza. Tuttavia, l'ospizio rimane una bella istituzione e un monumento degno di essere visitato. La chiesa è piena di bandiere prese al nemico, ma tutte posteriori al 1815. I vecchi trofei di quattro secoli, in numero di millecinquecento, furono coraggiosamente, ma non lietamente, bruciati in mezzo al cortile, quando Napoleone I fu domato dalla fortuna e gli eserciti alleati stavano per entrare in Parigi. Tra que' trofei erano le insegne e la spada di Federico II.
Alle spalle della chiesa degli Invalidi, e congiunta con essa, è quell'altra in cui sono sepolte le ceneri di Napoleone. Egli è là, il grand'uomo, nel suo masso di granito rosso finlandese, sorretto da un basamento di marmo verde; egli è là, chiuso nelle sue cinque casse, di latta, di magògano, di piombo, d'ebano e di quercia, l'eroe che ha sbalordita l'Europa con le sue vittorie e con la sua immane caduta; amato e venerato ancora, con tutto il male, odiato e maledetto ancora, con tutto il bene che ha fatto, e, dopo tutto, non giudicato più severamente da nessuno, che non lo fosse da sè medesimo in un momento di epico malumore.
La cosa è narrata da Lord Holland, nelle sue preziose memorie. Napoleone non amava il Rousseau, e al conte di Girardin, che gli lodava il filosofo ginevrino come un uomo di rette intenzioni, rispose:—«no, egli era un uomo cattivo; se non fosse stato per lui, la Francia non avrebbe avuta la rivoluzione». E siccome il Girardin non potè trattenere un sorriso,—«volete dire, soggiunse Napoleone, che, senza la rivoluzione, la Francia non avrebbe avuto neanche me? È possibile; ma essa, dopo tutto, non ne sarebbe stata che meglio.»—
Siamo giusti, anche con quest'uomo che si condanna da sè; la Francia non ne sarebbe stata peggio, di certo. Ma la rivoluzione, anche a non volerci vedere tutte le fiere bellezze che innamorarono un mondo d'inconsapevoli copisti, era un fatto necessario nell'ordine delle cose. Si può disputare del più e del meno, abbominare le esorbitanze, credere perfino che i «diritti dell'uomo» fossero già vivi ed operanti nelle coscienze, prima d'essere incisi nelle tavole della legge; ma bisogna riconoscere che quello scoppio d'ira fu un effetto logico di cause non dimenticabili, come tanti altri fatti grandi e piccini, utili e dannosi, sovrabbondanti nel bene e soverchianti nel male. I fatti hanno le loro ragioni efficienti, che li concatenano, e le tradizioni d'un popolo, che li sviano qualche volta, ne signoreggiano il corso; questa doppia azione, diretta e riflessa, costituisce la storia. E Napoleone, figlio e ministro della fortuna, sorto dalle rovine di una grande vendetta che aveva oltrepassato l'intento, artefice d'una nuova tirannide per naturale ambizione, ma altresì d'un nuovo ordine di cose, che altri, in condizioni normali, non avrebbe potuto instaurare, doveva essere un flagello e una benedizione pel mondo. Incantesimi rotti, ostacoli vinti, abissi colmati, ecco l'opera di un uomo. E quando si pensa che fu un uomo per davvero, non un fantoccio in balìa dei partiti o del caso, si può guardare con rispetto quel masso di granito e pensare che esso è ancora meno saldo, ancora meno durevole, della gloria immensa a cui si accompagna.
Giovenale ha chiesto una volta: «quot libras in duce summo?» Ma questo signor Giovenale non è tutto oro di coppella. Le grandi larve siedono ancora sui pugni d'ossa e di polvere, che furono le loro spoglie mortali. Si pensa, davanti a quelle reliquie, e lo spirito si eleva. Tutto ciò che eleva lo spirito aiuta il progresso dell'umanità e ne ingentilisce il costume, rendendo a mano a mano più agevole il gran punto, che pure è tanto difficile ancora, della convivenza sociale. Convivenza! esclama il pessimista; per che fare? In verità, io non ne so nulla, e non credo che gli altri ne sappiano di più. La stessa domanda si potrebbe fare pel nostro sistema planetario, che è pure così ben conosciuto in tutta la sua distribuzione meccanica. Dicono gli astronomi che andiamo di questo passo verso il lambda della costellazione d'Ercole; ma non è anche accertato, pur troppo, che ci fermeremo laggiù.
Per intanto, questi frettolosi viventi di Parigi vanno al Père Lachaise, e non tutti hanno la fortuna di allogarsi in un masso di granito. Ci sono stato anch'io, ma non già per restarci, come vedete. Il luogo mi piace poco. È una collina, c'è alberi e sole; ma i cippi sono troppo ammucchiati, serrati in fila, sui margini di certe strade selciate, come quelle che danno già tanta molestia ai viventi. I monumenti solitarii son pochi; abbondano i tabernacoli, e vi ricordano quelli dei crocicchi campestri.
Trovai molta gente che si affollava ad una di quelle nicchie, per scrivere il nome in un libro, come si fa nelle anticamere dei grand'uomini ammalati. Curiosa maniera di rendere omaggio al Thiers, che è sepolto là dentro; ma, dopo tutto, è una maniera che vale quanto un'altra. Lì presso è il monumento di Raspail, coperto affatto, come sepolto, sotto un monte di corone. Per contro, il povero Gall, l'inventore della frenologia, è lì, a due passi dal Raspail, senza il tributo d'un fiore; non avrebbe neanche l'occhiata del viandante, se non fosse pel suo sistema delle protuberanze del cranio, rappresentato a contorni, che si vedono incisi su tre facce del cippo.
Un bel monumento, sormontato da una statua di bronzo, ricorda Casimiro Périer; una tribuna oratoria, in marmo, onora la memoria di Garnier Pagés. Béranger ha voluto onorare l'amicizia, facendosi seppellire nella tomba del suo diletto Manuel, il grande oratore, morto tanti e tanti anni prima di lui. Grandi ricordi non cercati s'incontrano ad ogni piè sospinto. Io ho cercato Rossini e Bellini, di cui resta il cenotafio, poichè le ceneri sono tornate alla patria, e Alfredo de Musset, il cui salice disseccato non dà più ombra alla terra ove dorme il poeta.
Salendo per una viottola a destra, mi sono imbattuto in un monumento gotico, che non avevo cercato, ma che sarei oggi dolentissimo di non aver visto. Colà, sotto un padiglione sorretto da svelte colonne, come in un letto antico, stanno composti nel sonno eterno, l'uno a fianco dell'altro, due celebri amanti, Abelardo ed Eloisa. Chi rammenta la badia del Paracleto? Chi rammenta il concettualismo e le dispute con Bernardo di Chiaravalle? Una mezza dozzina di eruditi. Ma i due amanti sono rimasti nella memoria di tutti; un grande amore, sopravvissuto alla tomba,
Vince di mille secoli il silenzio.