English spoken, Man spricht Deutsch, Men spreeckt hollands, Se habla español,
e chi più n'ha più ne metta; io ci rinunzio, avendo dimenticato il testo preciso della medesima frase in russo, in polacco e in ungherese, che ho avuto la fortuna e il piacere di leggere su certe vetrine di via Lafayette.
In questo poliglottismo commerciale di Parigi tutte le nazioni sono rappresentate, ove se ne eccettui la nostra. Non mi è occorso di vedere in nessun luogo il desiderato «si parla italiano», salvo in via Castiglione, entro l'insegna d'un fotografo…italiano. L'eccezione conferma la regola.
Lo fanno apposta? Non credo. Quando un francese sa scrivere «come statte?» o farvi sapere che l'italiano «attrapare» corrisponde al francese attraper (preziosa notizia che ho trovata sul Pays, in un articolo filologico di Granier de Cassagnac padre) si suol dire a Parigi che costui parla l'italiano «comme le Dante». È dunque da credere che il desiderio di parer versati nella nostra lingua, evidente in certuni, escluda la possibilità del dispregio. Aggiungerò una prova convincente. Ieri il mio parrucchiere mi domandava con aria di profondo interesse: «est-ce vrai, monsieur, que l'italien ressemble beaucoup au latin?»—«A quelque chose près;—gli risposi;—et c'est vraiment dommage que ce ne soit du latin tout pur.»—
Il fatto è questo, che i francesi ignorano la nostra lingua e non sentono il bisogno d'impararla. L'italiano, quando esce fuori di casa sua, s'ingegna come può; bene o male, ma più spesso con mediocre infamia, spiccica la lingua degli altri. Ogni altro popolo d'Europa, quando varca i suoi naturali confini, parla volontieri la propria e mostra di stimar poco coloro che, interrogati, non gli rispondono in quella. È un nobile orgoglio, secondo certuni; ma io lo definisco l'orgoglio dell'ignoranza. Quando sono in un paese che non è il mio, amo parlare la lingua di quel paese; quando sono in casa mia, m'ingegno di farne gli onori, parlando al forastiero la lingua sua, se ho la fortuna di masticarne un pochettino. Questo era, dopo tutto, anche il gusto di Byron, che scriveva mirabilmente nella lingua di Shakespeare, ma si sarebbe vergognato di parlarla sul continente, avendo l'aria di imporre ai forastieri l'idioma di Wellington e di Hudson Lowe. Al diavolo dunque l'orgoglio della lingua patria, del non volerne saper altra e del pretendere che tutti parlino la nostra. Superbia per superbia, teniamoci quella del sapere qualche volta la lingua degli altri, del potere dare, col Mazzini e col Ruffini, degli scrittori all'Inghilterra, col Fiorentino e con altri parecchi, alla Francia. Qualche volta abbiam fatto di più, dando ai nostri vicini degli uomini di Stato, come il Mazzarino, degli imperatori, come il Buonaparte, dei dittatori, come il Gambetta.
C'est nôtre orgueil à nous, anche quando di questi uomini si dicono corna. Bisogna leggere per esempio ciò che si scrive qui del Gambetta, trionfante a Romans. Le rusé gênois, l'opportuniste italien, sono i titoli più alla mano. E non sanno il piacere che ci fanno, quando scrivono e dicono di queste cose. A buon conto scoprono il loro mal talento e rendono a noi ciò che è nostro.
Ritorno al mio tema. I francesi, dirà taluno, non conoscono la nostra lingua perchè non hanno interesse a studiarla. Per una parte è vero, amando noi di parlare il francese, quando siamo in casa dei nostri vicini. Per l'altra non lo è più tanto, dovendosi ammettere che un po' d'obbligo dovrebbero sentirlo anche loro, e notando inoltre questa sollecitudine con cui tanti bravi bottegai si affannano a notificare urbi et orbi che essi hanno il dono delle lingue, meno la nostra. E perchè questa esclusione, di grazia? Non è lecito di conchiudere che ci amano poco?
Per me, e senza mestieri di tante licenze, conchiudo addirittura così. L'ho accennato in uno dei capitoli precedenti e lo ripeto in questo. Chiacchiere di fratellanza, di razze latine, d'interessi paralleli e via discorrendo, ne sentirete molte anche qui; ma non c'è da crederne un frullo. Sono i giornalisti che svecchiano queste anticaglie, e noi, qui, dobbiamo accordare ai giornalisti quella fede che ottengono qui. Consentitemi la ripetizione dell'avverbio; è proprio qui che si sente questo difetto d'amore per noi; esso traluce, trapela, traspira e trasuda per ogni verso, nella sua forma più naturale e più schietta. Non è odio, non è malumore, è freddezza.
Che cosa importa a voi della donna che non vi piace? Può passarvi a lato quanto vuole, ma non avrà da voi che un'occhiata distratta. Può esser bella come pare a lei e agli altri, ma a voi non farà nè caldo, nè freddo; non negherete la cosa, ma non penserete neanche ad ammetterla; farete come Mastro Raffae', consigliato dalla canzone a non incaricarsene punto.
Ho parlato di freddezza, intendiamoci; ho detto che l'odio e il malumore non c'entrano. Qui non odiano nessuno di fuori via, neanche i tedeschi. Quando leggete su pei giornali o nei libri, i dolorosi accenni alla guerra del 1870, non vi fidate di certe frasi; sono abbellimenti rettorici. I tedeschi, forse, odieranno questo popolo, che si è rialzato così presto, troppo presto, mostrando di possedere una vitalità straordinaria; ma questo popolo non odia loro. Potrà darsi che un nuovo padrone lo spinga a tentare la rivincita, soffiandogli in cuore uno sdegno che giovi alle proprie ambizioni; ma sarà uno sdegno fittizio, un semplice innesto, come quello del vaiuolo. Per il momento, il nuovo padrone non c'è', nè sembra vicino, checchè ne dicano i giornali monarchici e i bonapartisti; c'è la repubblica con l'esposizione universale e la pace. Man spricht Deutsch! Chi avrebbe potuto prevederlo sette anni fa?
Aspettando che altri preveda il giorno e l'ora del «si parla italiano», diciamo dunque che delle lingue ignorate a Parigi la più ignorata è la nostra. Per chi aspetta la fratellanza dei popoli, questo è un cattivo segno, sicuramente; ma restringendo la nostra prospettiva, e contentandoci di restar parenti in dodicesimo grado con tutti (che sarà sempre abbastanza e a taluni parrà anche d'avanzo) si può ammettere che il male non sia poi così grave. Non dimentichiamo che i francesi, se non istudiano ora la lingua nostra, l'hanno pure studiata in illis temporibus, e la loro letteratura se ne è tanto imbevuta da portarne i segni entro e fuori, nella sostanza e nella forma, nelle frasi e nella ossatura dei periodi. Gli scrittori francesi del Cinquecento riboccano d'italianismi, e i più famosi tra loro sono anche i meglio formati sul gusto italiano. Inoltre, l'arte francese non è suppergiù che una derivazione dell'arte nostra. Come corteggio alle nostre principesse fiorentine, abbiamo mandato a Parigi i nostri pittori, i nostri scultori, i nostri orafi, i nostri architetti, e via via gl'insegnatori di tutte le utili discipline. La seta, i velluti, le maioliche, industrie italiane trapiantate in Francia; la pittura e la scoltura anche oggi sono studiate a Roma; per l'architettura si è formata qui una vera scuola, italiana nel complesso delle forme, sopraccarica negli accessorii, a cui giovano i facili insulti del clima, che annerisce e confonde nelle linee generali quell'abuso di ornati, non imitato certamente da noi. Emancipati dall'Italia nell'industria e nell'arte, hanno un pochino dimenticato la balia, ecco tutto. Saliti su su, mentre noi cadevamo sempre più in basso, e non al tutto per colpa nostra, pensarono per lunga pezza che noi non fossimo più necessarii nel mondo. Ad onor loro, va notato che furono i primi ad accorgersi dell'errore e che in un buon quarto di luna ci hanno anche data una mano a risorgere. Se ricompensati ad usura, non importa cercare; il benefizio è di quelli che non si possono attenuare, rammentando ciò che costano. Nè vuolsi andare ad almanaccare come e perchè, ad ottenerci il benefizio, ci volesse un tiranno, dopo che i nostri vicini, costituiti in repubblica, avevano aiutato a ribadirci le catene. Non siamo noi che dobbiamo guardare in bocca al cavallo donato; alla fin fine, i torti della seconda repubblica francese li ha cancellati la terza.
Questa è rettorica onesta; ma intanto l'amicizia non c'è, e l'ignoranza delle cose nostre rimane all'ordine del giorno. È un bene? è un male? Vediamo il bene; io non credo inutile questa indifferenza per noi, da parte del cervello del mondo; riconosco che c'è del buono, del gustoso, in questo risveglio non osservato del nostro paese. Meno abbaderanno a noi, e meglio faremo i fatti nostri. Le donne di cui tutti parlano, a cui tutti tengono dietro, non sono quelle che vantaggiano di più la famiglia.
Vedete il buon levatore; è desto e lavora, mentre tutti gli altri dormono ancora della grossa. È quella l'ora più felice della casa, senza faccie torbide e coi sorrisi dell'aurora al balcone; ogni cosa si fa presto e bene, quando non ci sono fastidii, nè inciampi. Chiunque ama il mattino (e tutti i lavoratori lo amano), m'intenderà facilmente, e vedrà di primo acchito l'utilità di lasciar dormire chi vuole, e di lavorare inosservati al nostro risorgimento politico ed economico.
Godiamoci dunque la nostra mezza solitudine e approfittiamone per rimetterci all'opera. Ci guadagneremo di sicuro qualcosa; per esempio di non avere a concorrer più all'Esposizione mondiale come abbiam fatto quest'anno, pochi, dappoco e mal serviti per giunta.
Ci siamo, all'Esposizione, direte; il salmo doveva finire in gloria. No, lettori umanissimi; sarà per un'altra volta. Oggi s'è fatto per celia.