Leonardo.—Variazioni e correzioni.—Chassez le naturel…—Scoltura
antica.—Restauri intelligenti.—La contessa di Tripoli e la Venere di
Milo.—Ci siamo.
«Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?» Un bel verso, non c'è che dire, ed una bella scappata di malumore. Ma chi ci libererà adesso da tutti i mediocri della critica, che da un pezzo in qua non sanno dir altro? No, riveritissimi e colendissimi (i superlativi contano qui come nella sopraccarta delle lettere); no, osservandissimi e prestantissimi signori; nè greci nè romani saranno banditi da casa nostra, per compiacere a voi altri, che non li vedete di buon occhio, et pour cause. Sappiate che questi greci e questi romani sono cerusici coi fiocchi, e che in Italia, ad ogni tanto, fanno qualche cura maravigliosa, pigliando i poverelli sull'orlo della fossa e rimettendoli in gambe. Se non le raddrizzano ai cani, mettete pure che ciò non sia tra i possibili, avendo la natura voluto così, e pei cani e pei critici.
Latini e Greci, babbi e nonni per noi, hanno dato al mondo l'esempio di un'arte viva e gagliarda, tutta umana nella sua purezza, tutta elegante e serena nella sua gravità. Niente di oscuro, di perplesso, o di vago, nei contorni di quella schietta ma non servile imitazione del vero; tutto ha un corpo e una bellezza ideale, in quel naturalismo felice che chiamava gli dei in terra e innalzava gli uomini in cielo.
Queste cose ch'io dico, e le molte che taccio, si fanno meglio palesi in due forme dell'arte antica, nella scoltura e nella architettura. Il marmo non ha mollezze nè abbandoni; può concedersi alle curve, graziose nella loro medesima sicurezza, ma si nega recisamente alle cascaggini, alle titubanze, ai galleggiamenti nel vuoto. La colonna, imitazione dell'albero, ha da star ritta, per esser salda; vuole la sua misura secondo un rapporto geometrico, la sua base, il suo capitello, il suo abaco. La statua deriva le sue proporzioni dal vero, ma dal vero che ammirate, non da quello che vi ripugna e vi offende. Policleto e Leonardo da Vinci, questi due grandi canonisti della forma umana, s'accordano senza conoscersi, alla distanza di ventitrè secoli. Proporzione, ordine, chiarezza, armonia, natura, bellezza, ecco di che elementi è nata, si è nutrita, e vivaddio si sostiene, l'arte greca e latina. Cercate nuove forme? Non troverete altro che le varianti, e le corruzioni di quella. I vostri Arabi, così gentili ricamatori della parete, così scaltri mascheratori dell'arco, derivano dai Bizantini; i vostri Gotici, amici del sesto acuto, che fa risparmiare la fatica delle cèntine sapientemente girate in aria, ingegnosi dissimulatori dei contrafforti e dei puntelli che tengono ritte le loro cattedrali, hanno l'arte di seconda mano dai Lombardi, scaduti e poveri, ma dopo tutto familiari copisti dello stile latino.
Riveriti signori, con tutto quel che segue, sapete a memoria un bel verso; per fare il paio, imparate quest'altro: «Chassez le naturel, il revient au galop.» Il che significa in lingua nostra, che avrete un bel liberarvi dai Greci e dai Romani; li caccerete dalla porta, rientreranno dalla finestra, o dal tetto. Non c'è natura, nè bellezza, ove non sia traccia di loro; l'espressione del bello eterno, venendo a noi, è passata per essi; ne fa fede la storia della civiltà; chi sostiene il contrario ha dato il cervello a pigione.
Io li ho veduti anche al Louvre, e li ho salutati con tutta l'effusione dell'anima, i miei Greci e i miei Romani. Parigi, anzichè liberarsene, aveva tentato di accrescerne il numero; tanto che, dopo le vittorie napoleoniche in Italia, la lista delle statue e dei bassorilievi segnava cento e diciassette capi di più. Nel 1815 tutta questa roba fu restituita ai legittimi proprietarii. Ma guardate quel che rimane; sono ancora migliaia di statue, centinaia di capolavori, quasi tutti levati da Roma, in trecent'anni di scorrerie, di tributi e d'acquisti. Curioso a vedere come il Mazzarino e il suo re si contentassero di rottami, scavati in Roma e offerti ai loro incaricati laggiù; ma più curioso e veramente lodevole il modo in cui furono restaurati quegli avanzi, spesso informi come l'Ajace, che si fa chiamare Pasquino su d'una piazza dell'eterna città.
Leggete infatti, a' piedi d'una Giunone, restaurée en Providenze: «moderni, il naso e la bocca, il collo e le ciocche dei capegli, le due braccia e i due piedi.» E sotto una donna velata, restaurata in Giunone: «la testa antica, appiccicata, non dovette appartenere alla statua, essendo di un marmo diverso.» Sotto una Cerere: «sono moderni, la testa col velo, il braccio destro, la mano sinistra, ecc.» Sotto un Apollo citaredo: «testa antica, ma non appartenente alla statua, ed evidentemente di donna. Il naso, il mento, il collo, le braccia, le gambe, i piedi, la lira e il termine, sono moderni.» E via di questo passo coi restauri, per molte e molte altre statue, tra le quali l'Oratore romano, rappresentato nell'atteggiamento di Mercurio, opera di Cleomene, figlio di Cleomene, Ateniese, come dice la leggenda scolpita in caratteri greci dell'ultimo secolo avanti Cristo; la famosa Diana di Gabio; l'altra non meno famosa di Versaglia (ritrovata a Roma, intendiamoci); la Pallade di Velletri, colossale, e lo stupendo Giasone, che si allaccia i sandali, somigliantissimo al Gladiatore Borghese, e trovato a Roma, nel teatro di Marcello. Quest'ultimo, per esempio, è di marmo pentelico; la testa è di grechetto, ma antica.
Bisogna esser grati ai francesi di questa diligenza, mercè la quale ogni statua fa la sua buona figura. Nè tutto è restauro, badate; ci sono in buon dato le statue intiere e i monumenti pressochè intatti. Per questo rispetto, Parigi non gareggia con Roma, nè con Napoli; ma può venir terza facilmente; ed è già un bel posto il suo, quando si pensi che quasi tutti i monumenti, statue, bassorilievi, sarcofaghi, candelabri ed altri cimelii preziosissimi del museo del Louvre, provengono d'oltr'Alpi. Quasi tutte le città gallo-romane della Francia hanno voluto avere i loro musei particolari, in cui esporre i frutti degli scavi fatti sul luogo. È questo forse l'unico caso in cui Parigi non si mostri usurpatrice del diritto delle provincie, o, per dir meglio, sostenitrice accanita di quella legge d'accentramento, da cui ha derivata la maggior parte della sua stessa importanza.
Tra le rarità del museo, vuol esser notato il quadrante solare di Gabio, su cui sono scolpite in cerchio le teste dei dodici Dei maggiori, colla giunta di un tredicesimo, piccolino, paffutello e sorridente, che apparisce tra Venere e Marte, e sembra collegarli in un abbraccio filiale. Avete indovinato che quel birichino è Cupido, che fa rima con infido, come sanno i vecchi e gli esperti. Degno di molta attenzione il planisferio greco egiziano, detto del Bianchini, dal nome del suo primo illustratore. Curiose le tavole di marmo, su cui si leggono scolpiti i nomi di tutti i cittadini ateniesi morti presso il nemico, nella 84.^a olimpiade; e quell'altra che reca incisa con eleganza mirabile una legge civile di Atene, e che i discendenti di Costantino avevano ridotta ad abaco di capitello, come si rileva dalle croci greche, scolpite rozzamente sui lati. Non si può passare indifferenti a' piedi di una Pudicizia, statua di donna tutta chiusa nella sua rica, che somiglia grandemente alla sua omonima dello scalone del museo Capitolino. Bisogna fermarsi davanti ad un Marte, che va eziandio sotto il nome di Achille, e non si può negare un tributo d'ammirazione a due o tre busti d'Antinoo, forse i migliori che si conoscano di questo bellissimo favorito dell'imperatore Adriano. Spero che avrete notato, passando, quel Giove colossale, lavorato con molta finitezza, ma ridotto poco degnamente ad Erme, perchè mancante lui delle parti inferiori, e mancanti gli artisti moderni del coraggio bisognevole per restaurarlo sul serio. Non badate, ve ne prego, a tutte quelle Veneri, che arieggiano il tipo conosciutissimo della Venere di Gnido, ma sono lontane dal poter rivaleggiare colla Medicea di Firenze e colla Capitolina di Roma. In materia di Veneri, io non conosco ora, non vo' veder altro che quella di Milo. M'è parso d'intravvederla, in fondo ad un androne. Sicuro è lei, proprio lei; la riconosco all'atteggiamento imperioso e alla mancanza delle braccia. Compatite la mia debolezza, sono innamorato cotto di quella bella monchina. L'amavo prima di conoscerla, come Goffredo Rudel amava la contessa di Tripoli; l'amavo sulla fede di ciò che ne aveva scritto il visconte di Marcellus, che andò a farle visita nella sua isola, entro la stalla del villano Jorgos; l'amavo per le forme di gesso, che ne portavano attorno i lucchesi. Nel 1871, quando corse la voce che i petrolieri della Comune avessero appiccato il fuoco al Louvre, il mio primo pensiero fu per quella bella prigioniera: non ebbi pace se non quando si riseppe che il Louvre era illeso dalle fiamme, e che del resto la divina immagine stava in sicuro da un pezzo, avendola i conservatori del museo calata in un sotterraneo, al riparo dalle granate e dalle bombe prussiane. Debbo confessarvi proprio ogni cosa? Un po' per far come gli altri ero venuto a Parigi, ma molto (l'avevo lasciato nella penna, per non parervi matto alle prime) molto per veder da vicino questa contessa di Tripoli…. cioè, no, volevo dire questa duchessa, principessa, regina, meraviglia di Milo e del mondo.
Studiamo il passo, se non vi rincresce, ed entriamo nel sacrario. La dea è là, nel mezzo della sala, su d'un piedistallo di granito; intorno al piedistallo è un cancellino di ferro, e intorno a questo si affollano, si stringono, si pigiano centinaia di Mozambicchi. Mozambicchi! che vuol dir ciò? Non vi scandolezzate; è il nome che Parigi ha superbamente appioppato ai suoi provinciali, venuti coi treni di piacere a vedere l'Esposizione, ed anche un pochettino ai forastieri che invadono i suoi caffè, i suoi marciapiedi, i suoi teatri, le sue trattorie, non lasciando aver pace ai Sibariti della Senna. Cari, quei Mozambicchi! Ci stiano pure, facciano siepe intorno al cancello; amano quello che io amo, e non mi posso dolere. Se madonna fosse viva, sarei geloso, non ho vergogna a confessarlo; ma è di marmo, e di marmo corallitico, che va annoverato tra i più duri della creazione, e, come son certo che non me la possono rubare, così mi sostiene il pensiero che essa non farà l'occhiolino a nessuno. Del resto, ad un per uno se ne andranno di lì, e, appena mi riuscirà di ficcarmi là dentro, di aggrapparmi alla ringhiera, vedremo.
Lavoro di gomiti e giungo alle spalle di una giovine coppia. Sono di sicuro due sposi novelli; lo dice quel tenersi a braccetto con tanta mollezza confidente; lo dice la loro gioventù; la loro snellezza, e quel pallore di giglio che tinge la guancia della signora, da me veduta in isbieco. Stanno un tratto silenziosi a guardare; poi la signora arriccia il naso, dà una stretta al braccio dello sposo, e con accento strascicato dalla noia gli dice:
—Non è che questo? (n'est-ce que ça?)
Sposina delle mie viscere, come capisco ora i parigini! Sì, è vero, ci sono dei Mozambicchi a Parigi, ce ne son troppi, e voi siete la regina della tribù.
Che cosa abbia risposto il cacico alla sua giovine metà, non rammento; forse non ci ho badato. So che la giovine coppia se ne andò e che io mi ficcai dentro, guadagnando venti centimetri di ringhiera. Intorno a me si era fatto un gran vuoto ed un grande silenzio; non c'erano più Mozambicchi, nè Mozambicche. Non potevo muovermi, è vero; ma di questo non occorreva dar cagione alla folla. Anch'io ero di sasso, o, se vi piace meglio, di stucco.