«Sì, signor Carey. Ancora al lavoro? Gli altri si son coricati presto, a quanto pare.»
«Già, ho pensato che era meglio mandare un po' avanti il lavoro. Domani riprendiamo gli scavi.»
«Di già?» chiesi un po' urtata.
«È la cosa migliore» mi rispose guardandomi stranamente. «Sono stato io a farlo presente al professor Leidner. Star qui a guardarsi in faccia non è molto igienico.»
«In un certo senso avete ragione» ammisi. «Aver qualcosa da fare è una distrazione.»
Il funerale, lo sapevo, avrebbe avuto luogo due giorni dopo.
Il signor Carey tornò a chinarsi sul suo piano dei lavori. Non so perché, ma il cuore mi doleva per lui. Ero certa che non avrebbe potuto trovare il sonno.
«Desiderereste un sonnifero, signor Carey?» gli chiesi esitante.
Lui scosse il capo con un sorriso.
«Oh, posso tirare avanti così, signorina. E una pessima abitudine, quella dei sonniferi!»
«Allora buona notte, signor Carey. E disponete pure di me per quanto possa occorrervi.»
«Grazie mille, signorina, ma credo che non avrò bisogno di nulla.» «Sono tanto, tanto spiacente» dissi, in un impulso un po' Irragionevole.
«Spiacente?» Lui sembrava sorpreso.
«Per... per tutti. E stata una cosa terribile. Specialmente per voi.»
«Per me? Perché per me?»
«Eravate un COSI vecchio amico di entrambi.»
«Sono un vecchio amico di Leidner... Non di lei in modo particolare.» Parlava come se non l'avesse potuta soffrire. Avrei voluto che l'avesse udito la signorina Reilly.
«Be', buona notte» dissi. E mi avviai in fretta verso la mia camera.
Gironzolai un po', prima di svestirmi. Lavai qualche fazzoletto, un paio di guanti, scrissi il mio diario. Poi decisi di andare a letto, non senza aver dato un'ultima occhiata fuori dalla porta. La luce era ancora accesa nella stanza da disegno e nella parte sud del casamento.
Pensai che forse il professor Leidner era ancora alzato e al lavoro, e mi chiesi se fossi, o no, dovuta andare a dargli la buona notte. Non avrei voluto disturbarlo, eppure... Infine decisi di andare a chiedergli se non gli occorresse nulla.
Ma il professore non c'era. C'era solo la signorina Johnson. Aveva la testa appoggiata sul tavolo e piangeva come se le si spezzasse il cuore.
Ne provai un vero colpo. Una donna così tranquilla, così padrona di sé. Faceva pena, a vederla.
«Oh, che c'è, cara?» esclamai, avvicinandomi e ponendole una mano sulla spalla. «Su, su, non dovete starvene qui tutta sola a piangere così.»
Lei non rispose, scossa dai singhiozzi.
«Su, cara» ripetei «dovete farvi forza. Andrò a prepararvi una buona tazza di tè.»
Lei alzò il capo e disse: