Ce ne andammo a letto presto, quella sera. La signorina Johnson era comparsa a cena e si era comportata più o meno come al solito. Però aveva uno sguardo smarrito, e un paio di volte parve non comprendere le parole che le venivano rivolte.
Fu una cena ben poco allegra. Voi osserverete che la cosa era naturalissima in una casa dove c'era stato un funerale proprio quel giorno. Ma io so bene quel che voglio dire.
Ultimamente i nostri pasti erano stati affrettati e modesti, ma un vivo senso di cameratismo, di unioe nel dolore li aveva animati.
Quella sera, invece, mi ricordò la sera del mio arrivo, quando la signora Mercado mi aveva fissato in quel tal modo, e una strana sensazione di qualcosa d' imminente ci aveva sopraffatti
La stessa sensazione, ma molto più intensa, avevo provato quando Poirot ci aveva riuniti intorno al tavolo della sala da pranzo.
E ora, la sensazione si ripeteva, fortissima. Eravamo tutti coi nervi tesi all'estremo. Credo che se un qualunque oggetto fosse caduto per terra, ci saremmo messi a strillare.
Come ho detto ci separammo presto. Io me ne andai immediatamente a letto e l'ultima cosa che udii fu la voce della signora Mercado salutare la signorina Johnson proprio fuori della mia porta.
Molto stanca, soprattutto per la mia sciocca esperienza in camera della signora Leidner, caddi in un sonno senza sogni e mi svegliai di scatto, dopo parecchie ore, con l'impressione di un'imminente catastrofe. Qualche rumore doveva avermi destato; mi misi a sedere sul letto con l'orecchio teso, aspettando che si ripetesse.
Subito udii una specie di gemito d'agonia.
In un batter d'occhio fui in piedi, accesi una candela, presi anche una torcia caso mai la candela si spegnesse e mi affacciai alla porta, aspettando che il gemito si ripetesse. Sapevo che non doveva provenire da lontano. Si ripeté infatti. Veniva dalla camera attigua alla mia, quella della signorina Johnson.
Vi accorsi. Lei giaceva sul letto, col corpo contratto da uno spasimo di sofferenza. Quando mi chinai sopra di lei vidi le sue labbra muoversi nel tentativo di parlare, ma ne uscì solo un rauco sussurro. Osservai che gli angoli della sua bocca e il mento erano come bruciati, di un color grigiastro. Gli occhi di lei andarono da me a un bicchiere che giaceva al suolo, evidentemente le era caduto di mano, e lo scendiletto aveva una gran macchia rossiccia. Raccolsi il bicchiere e feci scorrere un dito all'interno, ritraendolo con una brusca esclamazione. Poi esaminai l'interno della bocca della poveretta.
Non v'era dubbio su quanto era accaduto. Lei — intenzionalmente o no — aveva inghiottito un forte quantitativo di acido ossalico o cloridrico, mi pareva.
Corsi subito a chiamare il professor Leidner. Lui svegliò gli altri e facemmo tutto il possibile ma, lo sentivo, inutilmente. Tentammo con una forte soluzione di carbonato di soda poi con olio d'oliva. Per alleviare le sue sofferenze ricorremmo anche a una iniezione di morfina.
David Emmott era corso ad Hassanié a prendere il dottor Reilly, ma prima che questi fosse arrivato, tutto era finito. Non mi indugerò sui particolari. Dirò solo che la morte per avvelenamento da acido cloridrico (tale era) è una delle più dolorose che si conoscano.
Proprio mentre ero china sopra di lei per iniettarle la morfina, la signorina Johnson fece un tremendo sforzo per parlare. Udii solo un povero rantolo soffocato.